PANIFICAZIONE
10 LEZIONE
LA PANIFICAZIONE PASTICCERIA SALATA
Gli Egizi, i primi veri panettieri
Quella del pane è una storia antichissima, lunga più o meno quanto quella dell'umanità. In questa storia un capitolo decisivo l'hanno scritto gli Egizi, gran popolo che secondo lo storico Erodoto (484 - 425 a.C.) «fece ogni cosa in modo diverso dai comuni mortali». Eccellenti agricoltori, in pratica sono stati loro i primi veri panettieri ed hanno posto le basi affinché il pane potesse conoscere un successo senza fine e senza frontiere.
In sostanza, ai tempi in cui i Romani ancora si nutrivano di una semplice pappa di farina e i Greci di una specie di sfoglia cotta sul fuoco, gli Egizi già applicavano con sistematicità quella che assai più tardi sarebbe stata chiamata la "lievitazione naturale". Erano capaci, insomma, di mettere in tavola pagnotte gonfie e appetitose. E fragranti e profumate, anche ... e si sa bene che ancor oggi «pochi profumi riescono inebrianti e irresistibili come quello del buon pane appena sfornato».
Tutto ciò allora era considerato un fenomeno misterioso, dall'origine forse soprannaturale. Come facevano, gli Egizi, a compiere un tal miracolo? Avevano scoperto che per ottenere il "magico" risultato bastava aggiungere all'amalgama di chicchi macinati ed acqua un pezzetto di pasta avanzata il giorno prima, dal sapore un poco acidulo, che per questo veniva gelosamente custodita - come fosse cosa sacra - in ogni casa egizia (oggi, la piccola quantità di pasta tenuta da parte noi la chiamiamo "levatina").
L'osservazione, empirica, era stata più o meno casuale. Ma ricorrendo a questo piccolo trucco gli Egizi divennero maestri indiscussi nell'arte della panificazione, e si guadagnarono l'appellativo di «mangiatori di pane». Anche nell'oltretomba, bisogna rimarcare: nella terra dei faraoni, la lista delle vivande che i morti portavano con sé comprende almeno quindici nomi per indicare altrettanti tipi di pane.
La suddetta qualifica di "mangiatori di pane", del resto, gli Egizi se la erano ben meritata: già allora lo preparavano in una cinquantina di modi e forme differenti.
I rinomati pani greci
Più tardi gli Egizi trasmisero i segreti della panificazione agli Ebrei, che però producevano soltanto una sorta di panini rotondi spessi circa tre centimetri. Presso il popolo d'Israele, che attribuiva al pane importantissimi significati religiosi, la professione di fornaio godeva di grande prestigio ed ogni città aveva un forno pubblico adibito alla cottura dell'impasto. Dagli Egizi appresero a panificare anche i Greci, nel cui mondo l'idea del pane era strettamente legata a quella della fecondità della terra (basti pensare a Demetra, la dea raffigurata con le messi, celebrata durante i riti dei misteri eleusini connessi ai culti agrari).
Gli allievi, poi, si dimostrarono degni dei loro abili maestri: tra l'altro perfezionarono la costruzione dei forni, portando quest'arte ad elevati livelli, e produssero pane in tante ottime specie.
Secondo cronisti dell'epoca, già nel periodo classico - cioè tra il VI ed il V sec. a. C. - ce n'erano ben 72 tipi diversi: 50 di impasto semplice e 22 più complessi (gli antenati della pasticceria). Rinomati erano per esempio i pani di Cappadocia (lievitato col latte) e di Cipro (cotto sotto la brace) o il profumato amolgée, il pane dei contadini.
Il più celebre dell'intera produzione attica era il pane venduto nell'agorà: «sì bianco che l'eterea neve vince in candor», secondo l'elogio che ne fa Archestrato di Gela (IV secolo a. C.).
Nella sua "Gastronomia" Archestrato regala fra l'altro i seguenti consigli:
«Concediti pur tu i pani della Tessaglia denominati krimnitas, che peraltro tutto il mondo conosce come chondrinos […]. Ottimo, pure, è il pane di farina che viene prodotto per il mercato di Atene, per ogni mortale; così come valido è il pane che viene sfornato dai forni dell'Eritrea, dove cresce abbondante l'uva in ogni delicato, ricco, momento delle stagioni: ti delizierà nei banchetti».
A Roma nascono le panetterie
E nell'antica Roma? Come in tutte le grandi civiltà, in specie quelle mediterranee, anche qui il significato simbolico del pane era alquanto rilevante. Sebbene al proposito l'iconografia scarseggi, non mancano esempi interessanti: come le grosse pagnotte, con la crosta scura solcata da una gran croce, raffigurate in un sarcofago dopo la conquista della Grecia.
A Roma, però, il pane entrò nell'uso quotidiano soltanto verso la fine del periodo della Repubblica: stando a quanto racconta Plinio, la sua cottura fu introdotta nel 168 a. C., ad opera di alcuni schiavi catturati in Macedonia dopo la sconfitta del re Perseo.
Nella "città eterna", dove sorsero le prime botteghe per lo smercio di pane (risulta che nel terzo secolo d. C. ce ne fossero ben 254), compare anzitutto la categoria dei mugnai e successivamente quella dei fornai panettieri: sotto Traiano (che, nato nel 53, fu imperatore dal 98 al 117 d. C., anno della sua morte), riuniti in corporazioni presero a fornire il pane a tutta la collettività.
All"epoca dell"Impero Romano il pane era l'alimento base per gran parte della popolazione e bisognava assicurarlo a tutti. Per questo, vigeva una specifica legislazione, un editto stabiliva tra l'altro: che il pane di frumento fosse più sano e preferibile alla sorta di polenta (puls) e agli altri impasti di cereali in uso, e che era consentito acquistare frumento in pubblici granai ad un prezzo inferiore a quello di mercato.
Quali e quanti tipi di pane si facevano nella potente antica Roma? Plinio ci parla per esempio delpanis streptipcius, forse un antenato dell'odierna pizza (era composto da un impasto leggero di farina, acqua, latte, olio, strutto e pepe, e veniva cotto rapidamente a sfoglie sottili), dell'artologalum (una sorta di sfoglia che serviva da antipasto), del panis adipatus (grassottello, in effetti, perché condito con pezzi di lardo e pancetta), del panis testicius (antenato della piada romagnola) preparato e consumato dai legionari nei loro accampamenti.
Ma i pani erano moltissimi, e tutti in certo modo "speciali" perché - come si può notare persino dai nomi loro attribuiti - riflettevano una divisione rigidamente classista della società. Alle offerte sacrificali era riservato l'ador, alle mense imperiali il palatius e a quelle dei ricchi il bianco e finissimo siligineus.
E poi: sulla tavola dei poveri compariva il nero panis plebeius, gladiatori ed atleti si cibavano del nutriente canfusaneus, la bisaccia dei soldati conteneva il castrensis, sulle navi si trovava il nautilus.
Per finire si può ricordare il gradilis che, in omaggio alla demagogica promessa di dargli «panem et circenses», veniva distribuito al popolo durante i giochi negli anfiteatri.
Il pane e le corti medievali
L'abilità raggiunta dai fornai romani andò perdendosi nel corso delle invasioni barbariche e del Medio Evo, periodo durante il quale soltanto i monasteri possedevano panetterie di qualche importanza. Intanto, i diritti dei signori feudali si estendevano addirittura alla preparazione casalinga del pane: imponevano l'uso dei loro forni ai contadini, vale a dire alla gran massa dei più poveri, per ricavarne balzelli d'ogni tipo.
Più tardi, nel Rinascimento, di nuovo ogni categoria sociale aveva a disposizione il suo pane. Esclusivo. E non per modo di dire.
C'erano il pane del papa e quello del re. il pane del cavaliere e quello dello scudiero, e così via elencando.
Quanto al pane del boia, personaggio che comprensibilmente non godeva di eccessiva popolarità, leggenda vuole che proprio su questo terreno trovi origine la credenza - tuttora viva - che il mettere in tavola il pane capovolto porti sfortuna.
Si narra, infatti, che il boia di Carlo VII (re di Francia dal 1422 al '46') venisse accuratamente evitato dai fornai e quindi stentasse non tanto a guadagnarsi, quanto a procurarsi la proverbiale pagnotta. Il sovrano, allora, mise i fornai di fronte ad una scelta assai poco piacevole: o accettavano il boia come cliente, oppure si candidavano a diventarne clienti. Che cosa avreste fatto, voi, in simili circostanze? Beh, i fornai si arresero. Ma, in segno di disprezzo, da quel giorno il pane destinato al boia lo accantonarono rovesciato.
Il pane e il companatico del '600
Nell'Italia del '600, la miseria dilagava, Alla vigilia della gran penuria di cibo che precedette la gran "peste manzoniana" del 1630, un ignoto cittadino di Parma scriveva:
«Se in tutte le città si tenesse una monitione non ci sarebbe più carestia, perché indubbiamente Iddio provvede di vitto per tutti, e a quelli popoli che ne manca è per difetto loro et del malgoverno et del proprio interesse, il quale molte volte è caggione che la povertà patisce gran disaggi, et principalmente nella vettovaglia del pane et del formento (vitto principale d'Onnipotente Iddio per sustentamento dell'uomo) col quale quotidianamente si mantiene la povertà senz'altro comparaggio».
Con tali parole, l'anonimo autore giunge a suddividere l'intero universo alimentare in due sole categorie: la prima occupata esclusivamente dal pane (vitto principale dell'Onnipotente Iddio per il sostentamento dell'uomo), l'altra allargata fino a comprendere tutto il resto dei più diversi cibi accomunati sotto il generico appellativo di companatico (comparaggio).
Nel '600, però, su ogni umile pezzo di pane gravava un'infinità di tasse, le più impopolari che siano mai state inventate: dalla "gabella" per la farina al "dazio" per la cottura nei forni di proprietà padronale. Perché stupire, dunque, se nel corso delle carestie i sentimenti del popolo affamato che si ribella hanno sempre fortemente contribuito ad indirizzare il corso degli eventi.
Il pane e le rivoluzioni
Il pane ha avuto ed ha un grande ruolo anche nella storia, perché da sempre la storia del pane s'intreccia inestricabilmente con quella della parte più povera e dolente delle popolazioni: è per averne che «l'uomo traffica, si industria, si affatica e lotta».
La mancanza di pane (o anche la sola paura di non averne) è un incubo, un incubo che serpeggia costantemente nella storia dell'umanità. Non solo quella più antica, ma anche quella di secoli più vicini a noi. Provate un po' a rileggere il 120 capitolo dei "Promessi sposi" in cui Manzoni tratta con straordinaria efficacia narrativa dell'assalto al forno di Milano durante la carestia del 1628. Tra gli esempi da non dimenticare inoltre la rivolta popolare del 1789 contro Maria Antonietta e il suo re.
Fu poi con la rivoluzione industriale dell'Ottocento che la panificazione "bianca" divenne cibo "comune", e le tante interpretazioni locali della ricetta contribuirono all'affermarsi della Pizza.
Il pane è stato ed è tuttora alla base dell’alimentazione dell’uomo.
Con il cristianesimo il pane e il vino vennero assunti al ruolo di alimenti sacri per eccellenza, immagine e strumento del miracolo eucaristico, insieme all’olio pure indispensabile alla liturgia. La cultura romana fece suoi molti aspetti del cristianesimo nascente esaltando la ritualità di quei tre prodotti.
Sta di fatto che sia per prestigio della tradizione romana, sia per il diffondersi in Europa della nuova fede, il pane, il vino e l’olio conobbero una straordinaria diffusione a partire dal IV secolo.
Sant’Agostino in un sermone spiega l’identità metaforica fra la fabbricazione del pane e la storia del nuovo cristianesimo.
Le vite dei santi sono piene di personaggi che per diffondere la fede cristiana piantano vigne emettono a cultura il frumento. Sono vescovi e abati intenti al lavoro dei campi.
Nei popoli dell’Europa del nord il vino occupa un ruolo importante.
Nella Vita di San Remigio si narra che mentre Clodoveo, fondatore dalla potenza franca, si preparava a combattere Alarico, re dei Visigoti, Remigio, vescovo di Reins, gli consegnò, come benedizione, un fiasco di vino, da cui ne avrebbe tratto forza ed entusiasmo per combattere.
Come per magia ne bevve il re, con tutta la famiglia reale, e una gran moltitudine di popolo, ma il vino non calava mai, sgorgava dal fiasco, come da una sorgente. E naturalmente li condusse alla vittoria. In un episodio del Libro dei re, si narra di altri miracolosi recipienti che traboccavano di farina e di olio.
Al giorno d’oggi c’è una ripresa di interesse verso i prodotti naturali, le tradizioni alimentari stanno conoscendo un nuovo rinnovamento di estensione e durata imprevedibile.
Alcuni nostri contemporanei vanno oltre, restaurano vecchi forni, imparano a fare il pane.
Questo non solo per essere certi della qualità del prodotto ma anche per acquisire, in quanto produttori, un’abilità operativa per arricchirsi interiormente, per essere i fornitori di una comunità di parenti, di vicini, di amici, per riallacciarsi alle tradizioni.
Alcune abilità che esistevano una volta per la loro utilità ne settore del lavoro, ricompaiono sia come impiego del tempo libero sia come strumento di comunicazione con gli altri.
I nuovi praticanti sono anche fieri delle abilità e delle qualità sociali così acquisite come potevano esserlo gli artigiani di un tempo anche se il loro lavoro assicurava solo una condizione materiale mediocre; la qualità personale e sociale andava a compensare una condizione di vita inferiore e ingiusta. Quella stessa qualità è ricercata al giorno d’oggi per compensare l’impoverimento interiore nel lavoro parcellizzato.
Le zuppe erano il cibo più comune nelle usanze contadine perché si potevano utilizzare i prodotti che venivano coltivati e si potevano coltivare secchi.
Le zuppe o minestre erano usate sia per il pranzo sia per la cena, costituivano spesso il piatto unico dell’alimentazione e, anche se erano piatti poveri, erano nutrienti.
Le zuppe erano cotte sul camino nelle pentole di coccio: il sapore veniva dato dal miscuglio di odori, dagli ingredienti che le caratterizzavano e soprattutto da un bel battuto di lardo.
Prima della seconda guerra mondiale il pane era più un sogno che una realtà, per la gente semplice. La polenta di granturco ed il pane di legno cioè di castagne erano i soli ben presenti sulle tavole.
Carne, pesce e formaggio erano così rari che non avevano altro nome che companatico.
E anche quando era presente sulla mensa, era sempre misurato.
Dopo la seconda guerra mondiale, i primi manifesti e i primi comizi dei vari partiti erano sintetizzati negli slogan “pane e lavoro” “pane e libertà”.
Il pane quante espressioni si trovano nei modi di dire e nelle opere della letteratura italiana. “buono come un pezzo di pane”si dice di una persona onesta e timorata di Dio. A questo proposito, nelle sue opere, Giovanni Verga non finisce mai di creare neologismi e sintesi bellissime.
Quando arrivarono i soldati americani e inglesi che mangiavano pane bianco, furono facili i commenti da parte di chi il pane bianco l’aveva solo sognato.
Oggi che il pane buone avremmo potuto permettercelo tutti, ci siamo persi dietro una polpetta rotonda e un panino con i semi che, dopo 24 ore, non lo mangia neanche un cane affamato.
Non è il denaro che ci fa mangiare bene, ma la conoscenza. Ecco un elenco di pani non bianchi che sono di qualità superiore e che sono reperibili nei luoghi di produzione:
- Pane nero di Castelvetrano (Sicilia)
La forma è quella di una pagnotta rotonda, che in siciliano si chiama vastedda, la crosta è dura e color caffè (cosparsa di semi di sesamo), la pasta è morbida e giallo grano. Celebre in tutta la Sicilia, il pane di Castelvetrano è diventato negli anni sempre più raro e ha rischiato addirittura di scomparire per la sua particolarità di essere cotto esclusivamente nei forni a legna e di essere prodotto con grani siciliani macinati a pietra.
Il suo colore deriva dalla materia prima. Si impasta miscelando due farine, quella di grano duro siciliano e quella ricavata da un’antica popolazione di frumento locale, la timiìa, entrambi integrali e moliti con macine a pietra naturali. Ed è proprio grazie alla rarissima timila che il pane di Castelvetrano diventa nero e straordinariamente dolce e gustoso, con profumi intensi e un particolare aroma di tostato. Gli altri ingredienti sono acqua, sale e lievito naturale (lu criscenti, la madre). Prima della cottura l’impasto deve lievitare a lungo.
Ogni fornaio ha un vecchio magazzino ben areato dove far seccare la potatura degli olivi. Le fronde servono per alimentare i forni di pietra. Il fuoco – vivace e brillante – arroventa le pareti e la temperatura, nel punto più alto, raggiunge i 300°C. A fiamme spente si ripulisce accuratamente il forno con una scopa di palma nana (curina) dal manico molto lungo e si inforna il pane, che cuoce lentamente e senza fuoco diretto via via che la temperatura decresce. Quando il forno si è raffreddato, il pane è cotto.
Fresco, ha note tostate nettissime al naso, quasi di malto e di mandorla tostata, che si uniscono al leggero sentore aromatico del legno di olivo al cui fuoco viene cotto.
La tradizione vuole che il pane nero di Castelvetrano appena sfornato e ancora caldo sia diviso in due e conciato con olio extravergine (meglio se della locale Nocellara del Belìce), sale, origano, pomodoro a fette, formaggio tipico della zona (primosale o Vastedda), acciughe o sarde diliscate e basilico. Una colazione o un pasto straordinario.
- Pane di Cerchiara Clabra
Il pane è definibile come un'opera d'arte. Esso è come se già esistesse: quasi come un manufatto che l'artista deve tirare fuori dall'argilla. Il panificatore con i suoi riti quotidiani, i suoi segreti, con un faticoso "corpo a corpo" modella l'impasto di farina ed acqua e lo vede "nascere" e "vivere" ovvero crescere grazie al lievito il quale rende il pane una creatura vivente vera e propria, di cui il fornaio è orgoglioso. Possiamo dire che alla base della produzione del pane vi sono la terra, il fuoco, l'aria, l'acqua, il lievito, il tempo e la manualità: elementi naturali e gesti che quasi come un rito quotidiano hanno accompagnato la storia dell'uomo e certamente caratterizzano la vita delle generazioni di panificatori. Orgoglio e tradizione che si trasmettono di padre in figlio e, per il pane domestico, trasmessi da madre a figlia tramite quelle ricette orali e quei segreti che si svelavano durante gli incontri delle donne per "fare il pane della festa": momenti di allegria, di condivisione di informazioni, di racconti, di fatti e rivelazioni. La produzione del pane "fatto in casa" costituiva (e costituisce) elemento di socializzazione dal quale emergeva chiaramente quella simbologia popolare che si concretizzava poi nelle più disparate tipologie di cottura o di forme "magiche" dai nomi più vari, magari con funzione decorativa per le festività religiose o per i matrimoni: pani tondi o oblunghi, alti o bassi, forati, intrecciati, merlettati, con figure umane o di animali, decorati, conditi, e così via. Creatività domestica che nel tempo si è trasferita in quei "laboratori" che oggi chiamiamo panifici.
Anche il pane così come gli altri prodotti a Denominazione Comunale di Origine (De.c.o) diventa emblema di un territorio e di un Comune, essendone spesso prodotto identitario ovvero identificandosi con esso. Ed è quanto ha voluto affermare con forza il sindaco di Cerchiara di Calabria (CS) Antonio Carlomagno il quale con la sua amministrazione comunale ed insieme ad alcuni panificatori locali, ha intrapreso l'importante percorso di valorizzazione e di tutela del rinomato Pane di Cerchiara. Si perché è stato scoperto che spesso viene commercializzato fuori dai confini comunali anche quel "falso" Pane di Cerchiara che non proviene dai forni presenti all'interno del territorio comunale, a discapito dunque di quei panificatori che con fatica, mantengono intatta la tradizione del "pane scanato". Un pane che può pesare da 0,5 a 12 kg (ma può arrivare anche a 20 kg) e che assume una forma particolare grazie alla "scanatura" che si effettua, con mani sapienti, durante la lavorazione e che determina la "resella" o "rasella" o "sella" sulla pagnotta; una pagnotta la cui conformazione gobbosa ricorda proprio Monte Sèllaro che dal Parco Nazionale del Pollino domina sull'antica Cerchiara di Calabria. Il pane di Cerchiara è un pane "al femminile",visto che sono proprio le donne ad essere le titolari dei panifici attivi e ad essere le depositarie della singolarità del "loro" pane: l'impasto, la cui specificità deriva sia dalla bontà dell'acqua locale sia dalla attenta selezione delle farine di grano tenero ed in parte aggiunte di crusca, viene fatta lievitare con "lievito madre" (pasta acida) e poi cotta nel forno a legna tradizionale a cupola la cui base è costituita da mattoni refrattari, i quali cedono gradualmente il calore a partire dal momento in cui il tetto del forno diventa bianco e possono iniziare le due ore di cottura lenta; il pane conserverà a lungo la fragranza e si potrà consumare anche dopo molti giorni. Ogni panificatore ha i suoi segreti: dalla "pasta acida" che si tramanda e si rigenera continuamente (e che rispetto al lievito di birra conferisce maggiore qualità al pane), al momento esatto in cui la base di mattoni del forno con la legna ardente puà essere liberato e pulito con lo "scopolo" per poi iniziare l'inserimento dei candidi "palloni" scanàti da cuocere. Ma a tutti loro fa piacere, se entrate a far visita, sentirsi dire:"San Martino !". Vi risponderanno con un caloroso "Benevenuto !".
Un pane prezioso dalle antiche origini e con valenze rituali ancora vive: la "rasella" a tavola viene offerta all'ospite più importante. Un pane che spesso quando viene tagliato longitudinalmente assume la forma di cuore; è il caso di dire "un cuore di pane".
- Pane di Altamura (Puglia)
Il Pane di Altamura DOP è un prodotto di panetteria dalla forma accavallata o a cappello di prete, ottenuto dal rimacinato di semola di grano duro. La pagnotta in pezzatura non inferiore a 0,5 kg, nella tradizionale forma accavallata, si caratterizza per la presenza di baciature ai fianchi. La forma a cappello di prete è più bassa e senza baciature. La crosta è croccante, dello spessore di almeno 3 millimetri. La mollica, di colore giallo paglierino, è caratterizzata da alveolazione omogenea.
La zona di produzione del Pane di Altamura DOP comprende i territori dei comuni di Altamura, Gravina di Puglia, Poggiorsini, Spinazzola e Minervino Murge. L’origine del Pane di Altamura DOP è legata alla tradizione contadina della caratteristica zona di produzione. Elemento base del regime alimentare delle popolazioni alto murgiane, nella sua forma più tradizionale («U sckuanète = pane accavallato») è in pezzatura di notevoli dimensioni. Era prevalentemente impastato e lavorato tra le mura domestiche, quindi definitivamente confezionato e cotto in forni pubblici, con implicazioni sul piano sociale e culturale, conseguenti alla connessione del privato con il collettivo. Il fornaio procedeva alla marchiatura delle forme con il marchio in legno o in ferro artigianale, riportante le iniziali del capo famiglia, quindi le infornava.
La sua principale caratteristica, mantenuta fino ad oggi, era la serbevolezza, necessaria per garantire l’alimentazione di contadini e pastori per 1 settimana o più frequentemente nei 15 giorni trascorsi nelle masserie disseminate tra le alture murgiane: un’alimentazione incentrata quasi esclusivamente sul pane condito con sale, olio ed immerso nell’acqua bollente.
Fino alla metà del secolo scorso si poteva udire per le strade di Altamura il grido del fornaio che annunciava all’alba l’avvenuta cottura del pane.
Il primo riferimento al luogo di origine del prodotto, se non proprio riconducibile ad Altamura ma sicuramente al territorio murgiano, è rintracciabile nel Libro I, V delle Satire del poeta latino Orazio che nella primavera del 37 a.C., nel rivisitare il paesaggio della sua infanzia, nota l’esistenza del «pane migliore del mondo, tanto che il viaggiatore diligente se ne porta una provvista per il prosieguo del viaggio».
La tradizionale attività di panificazione di Altamura trova conferma negli «Statuti municipali della città fatti nell’anno 1527», i cui articoli relativi al «Dazio del forno» e alle sue esenzioni sono stati trascritti da Autori moderni. Altro documento, risalente al 1420, sanzionava l’esenzione del dazio del pane per il clero di Altamura. La consuetudine della cottura in forni pubblici traeva fondamento nel divieto posto ai cittadini «di ogni stato o condizione» di cuocere nelle proprie abitazioni qualsiasi tipo di pane o focacce, pena il pagamento di rilevante ammenda, rappresentando la gabella imposta 1/3 del costo complessivo della panificazione. Era dunque nel contesto di una società agropastorale che nascevano le forme tipiche dai pani tradizionalmente confezionati per i contadini, per i pastori e per le loro famiglie che ancora oggi è possibile ritrovare nella produzione dei panificatori altamurani: forme di grande pezzatura, ottenute con sfarinato di grano duro, lievito madre, sale e acqua, alla fine di un processo di lavorazione articolato in 5 fasi: impastamento, formatura, lievitazione, modellatura, cottura nel forno a legna. Ed erano queste caratteristiche a distinguerlo da qualunque altro tipo di pane. Anche l’attività molitoria doveva essere concentrata tutta in Altamura, considerato che agli inizi del 1600 esistevano ben 26 impianti di trasformazione in piena attività. Si può concludere affermando che, nonostante le trasformazioni e gli adeguamenti sopravvenuti, il pane attualmente confezionato nella murgiana città di Altamura, sia il diretto erede di quel pane dei contadini e dei pastori che, dal Medioevo in poi, si continua a produrre senza soluzione di continuità.
Ottimo se consumato da solo, tagliato a fette con olio extravergine di oliva e sale, il Pane di Altamura DOP è ideale per la preparazione di antipasti e merende o accostato a diverse pietanze. Tra le ricette più tradizionali a base di questo pane, si annoverano le Cialde (in abbinamento con pomodori, cipolle, patate ed olive) e la Zuppa povera (tocchetti di pane fresco o abbrustolito, con pomodori, origano, basilico, aglietto fresco, sale, olio extra vergine di oliva).
- Pane di Orsara di Puglia cotto in forno a paglia
È un incredibile viaggio nel tempo fra tradizioni contadine e genuinità quello che Puglia Mon Amour ha vissuto da Pane e Salute, un piccolo e caratteristico locale in cui un forno a paglia in pietra focaia cuoce dal 1526 il pane per la comunità di Orsara di Puglia.In quel periodo, racconta il proprietario del forno Angelo Di Biccari, conosciuto da tutti come Angelo Trilussa, si era stabilita nella zona una legione di Cavalieri di Calatrava, monaci guerrieri incaricati di difendere la fede cristiana lungo la via Francigena. Da secoli il forno ha visto alternarsi, giorno e notte, le forme di pane portate dalle massaie della cittadina che dopo aver preparato e portato l’impasto aspettavano di essere chiamate al forno per ritirare la pagnotta, su cui veniva incisa l’iniziale del cognome della famiglia proprietaria.Due gli spazi di cui è composto il forno che ora è sede dell’Associazione culturale a cui fa capo Di Biccari, nata per diffondere la storia e le origini di un alimento tra i più conosciuti e consumati di tutti i tempi. Un vano inferiore per la combustione della paglia. E l’altro, più in alto, per la cottura.“Sono circa 40 le forme di pane che può contenere questo forno – spiega Di Biccari – ciascuna da 4 kg. La lievitazione dura circa 12 ore”. Un pane che all’inizio può sembrare biscottoso ma si ammorbidisce nelle ore successive per essere conservato per diversi giorni, addirittura fino a due settimane. È il pane “divino”, un pane che da generazioni viene preparato secondo le tecniche casalinghe e utilizzando lieviti madre selezionati da secoli, ricchi di fermenti lattici, che lo rendono più appetitoso e digeribile.Un alimento ricco di storia e portatore di credenze popolari che ancora oggi svegliano la scaramanzia di qualcuno. Un tempo, infatti, se il pane bruciava era considerato un segno nefasto. Se si rovesciava dentro il forno annunciava disgrazia, se si spaccava durante la cottura presagiva la morte di un familiare. Il pane, poi, non doveva essere buttato per terra e, se questo accadeva, doveva essere raccolto e baciato. E ancora, non doveva essere capovolto sulla tavola, non poteva essere trafitto dal coltello se non per mangiarlo e di venerdì non poteva essere tagliato ma solo spezzato con le mani. Inoltre, veniva appeso alle olive per propiziare una buona annata. Ma soprattutto il pane, se avanzava, non si buttava mai via, si usava come cibo per gli animali.Ogni venerdì di fine mese Pane e Salute, che fa anche spedizioni all’estero, offre pane, focaccia, pizza con le cicole, pizza al pomodoro, pizza ‘n terra, pizza randine (farina di mais).
- Pane di Matera
Il pane di Matera è il pane ottenuto mediante un antico sistema di lavorazione, tipicamente utilizzato dai panificatori dellaprovincia di Matera. Tale sistema prevede l'utilizzo esclusivo di semola di grano duro.
Il pane di Matera, con il suo sistema di lavorazione, ha una lunghissima tradizione risalente al Regno di Napoli ed anche oltre, come confermato da numerose ed autorevoli fonti storiche. È da sempre alimento tipico del territorio materano, tradizionale zona di coltivazione di cereali, come risulta anche da diverse testimonianze artistiche e letterarie che attestano l'importanza ed il culto del pane nella vita e nell'economia di tutto il territorio.
La zona di produzione del pane di Matera è costituita da tutto il territorio della provincia di Matera; tuttavia il tipico pane a forma di cornetto è prodotto principalmente nel comune di Matera stessa e nei paesi dell'alta provincia materana (Montescaglioso,Irsina, Tricarico, Grassano, Grottole). Nei paesi della bassa provincia materana come Montalbano Jonico, Tursi, Pisticci si produce il pane di forma rotonda, leggermente diverso in termini di sapore e consistenza rispetto al tipico pane materano.
Il pane di Matera deve avere le seguenti caratteristiche:
- Forma a cornetto oppure a pane alto;
- Pezzatura da 1 o 2 kg;
- Spessore della crosta di almeno 3 mm;
- Mollica di colore giallo paglierino con caratteristica alveolazione;
- Umidità non superiore al 33%.
La scelta di vecchie varietà di grano, che conservano, nel loro patrimonio genetico, caratteristiche non presenti in altre, dà luogo a farine che trasferiscono al pane il gusto ed il sapore unico che lo contraddistinguono. Si aggiungano il processo di lavorazione e, nello specifico, la realizzazione del lievito madre, che, prodotto con frutta fresca, aggiunge ulteriori e particolari sensazioni di gusto.
Il prodotto si ottiene mediante l'antico processo di produzione che prevede l'utilizzo di lievito madre, semola di grano duro, sale e acqua. Parte delle semole da utilizzare per la produzione deve provenire da vecchie varietà coltivate nel territorio della provincia di Matera quali Cappelli, Duro Lucano, Capeiti, Appulo. Può essere cotto sia nel forno a legna che nel forno a gas. Il prodotto ottenuto, grazie agli ingredienti utilizzati ed alla specificità del processo di lavorazione, si caratterizza per un colore giallo, una porosità tipica e molto difforme (con pori, all'interno del pane, del diametro variabile da 2–3 mm. fino anche a 60 mm), un sapore ed un odore estremamente caratteristici. La conservabilità del pane, così ottenuto, può raggiungere i 7 giorni di tempo per le pezzatura da 1 kg ed i 9 giorni per la pezzatura da 2 kg
- Pane di Lariano (Lazio)
È un tipo di pane casareccio prodotto a Lariano. Gli ingredienti principali sono la farina integrale, la farina "00", l'acqua e il lievito naturale. La cottura avviene nel forno a legna con le fascine di castagno.
Noto da sempre in tutta la zona dei Castelli Romani e a Roma, questo pane si caratterizza per l'uso del lievito naturale, la farina di grano tenero semintegrale e la cottura nel forno a legna. La lievitazione è ottenuta con lievito madre e con un poco di lievito di birra. Si impastano gli ingredienti per circa 40 minuti dopo di che si lascia lievitare per un'ora. Il pane viene poi spianato, modellato in forma di pagnotte grandi o filoni dal peso di circa 1 o 2 chili, riposto in casse di legno, spolverato con cruschello o tritello e coperto con teli di canapa, dopo un certo periodo di tempo in cui avviene la seconda lievitazione si procede alla cottura rigorosamente ottenuta mediante il forno a legna di castagno per circa un'ora e venti.
- Pane di Genzano (Lazio)
Pane casareccio di Genzano (IGP) è un prodotto di panetteria a Indicazione geografica protetta.
L'Indicazione Geografica Protetta Pane Casareccio di Genzano si riferisce al prodotto di panetteria ottenuto da farina di ottima qualità di tipo 0 o 00, lievito naturale, sale, acqua e cruschello di grano. Il prodotto finito, estremamente leggero, si presenta nella classica forma a pagnotta tonda o in filone, con crosta scura e fine, mollica soffice e fortemente occhiata, dal profumo di cereale.
La zona di produzione del Pane Casareccio di Genzano IGP è limitata al territorio del comune di Genzano di Roma, in Provincia di Roma, nella regione Lazio.
L'Indicazione Geografica Protetta Pane Casareccio di Genzano è riservata al prodotto che ha le seguenti caratteristiche:
- peso da 0,5 a 2,5 kg;
- crosta di colore scuro, dallo spessore di circa 3 mm;
- mollica di colore bianco-avorio;
- profumo che ricorda quello dei cereali genuini e dei granai;
- sapore sapido;
- tasso di umidità non superiore al 33,7%;
- peso specifico pari a 0,23 kg/dm3.
A seconda della forma si possono distinguere le seguenti tipologie, così come immesse in commercio:
Filone: rotondo e lungo.
Pagnotta: con “baciature” evidenti ai lati.
Ogni pagnotta o filone di pane casareccio di Genzano IGP deve riportare sempre il bollino identificativo sul quale si trovano le seguenti indicazioni:
- Pane casareccio di Genzano - Indicazione geografica protetta
- Garantito dal Mi.P.A.A.F. ai sensi dell'Art. 10 del Reg. CE 510/2006
- Il codice del produttore autorizzato
- Il numero progressivo di produzione.
- Il logo comunitario dei prodotti IGP
L'Indicazione Geografica Protetta pane casareccio di Genzano ha ottenuto la registrazione europea con Regolamento CE n. 2325/97 (pubblicato sulla GUCE L 322/97 del 25/11/1997).
Le origini del pane casareccio di Genzano IGP discendono dalla tradizione rurale da sempre legata al territorio di produzione; proprio nel comune della provincia di Roma il prodotto veniva lavorato e cotto in speciali forni a legna chiamati “soccie”. Fin dall'antichità era compito delle donne che abitavano nei borghi, preparare e portare il pane a cuocere nelle strutture pubbliche. Una volta inserite in forno le pagnotte, le lavoratrici lasciavano impressi sulla superficie del prodotto segni particolari e ben riconoscibili, per distinguere i propri pani da quelli delle altre donne. Fonti storiche riportano inoltre che tutti i giorni, sin dalle prime ore del mattino, le vie del paese erano invase da un particolare profumo di frumento misto a quello di legno di castagno, con cui erano alimentati i forni. Nel comune di Genzano l'attività della produzione del pane era così radicata e diffusa che scandiva il passare delle ore e della giornata. Testimonianze storiche riportano inoltre che già attorno 1600 era diffusa la cultura del pane, tanto che il principe Cesarini Sforza, accanto al cui palazzo sorgeva il borgo, lo offrì in dono al Papa. Si narra a tal proposito che il Pontefice fosse rimasto estremamente colpito dal gusto e dal profumo di questo particolare prodotto. Apprezzato già agli inizi del XX secolo, è solo dagli anni Quaranta che il prodotto ha visto ampliare le proprie prospettive, grazie all'introduzione delle impastatrici e dei forni elettrici che hanno alleviato, nel tempo, le fatiche dei fornai. Il pane di Genzano ha così iniziato a registrare consensi prima presso gli abitanti di Roma, dove veniva trasportato di notte e venduto il giorno successivo nei panifici locali, e poi anche al di là dei confini regionali. I motivi della particolarità e inimitabilità del prodotto si devono però in larga parte all'impiego di strumenti che fanno parte della tradizione locale ed alle procedure di lavorazione tramandate di generazione in generazione.
Il pane di Genzano IGP è ottenuto attraverso le seguenti fasi di produzione:
Preparazione del lievito madre - è l'unico metodo che permette di ottenere un lievito naturale contenente batteri lattici ed acetici garantendo così caratteristiche uniche di conservabilità ed elasticità. Si prepara a partire da un impasto di acqua e farina, rinnovato quotidianamente. Le dosi devono essere proporzionali alla quantità di impasto.
Impasto - viene preparata la biga, un preimpasto ottenuto tramite la miscela di acqua, farina e lievito. L'operazione dura circa 20 minuti, anche se il tempo necessario per tale fase può variare a seconda del quantitativo di preparato da lavorare. Per l'impasto di una dose pari ad 1 quintale di farina di tipo 0 o 00, vanno aggiunti: 2 kg di sale, 1,5 kg di lievito naturale e 70 l di acqua circa. Lievitazione - dura circa 1 ora, tempo durante il quale l'impasto raggiunge il punto ottimale di lievitazione, anche se spesso è il fornaio stesso a decidere se il preparato è pronto o meno per essere spianato.
Modellatura - l'impasto viene spianato e modellato per formare le caratteristiche pagnotte o i filoni, che vengono collocati all'interno di apposite casse di legno. Qui gli impasti vengono sistemati in teli di canapa e spolverati con cruschello o tritello, che conferiscono al prodotto il caratteristico colore scuro della crosta.
Seconda lievitazione - A questo punto il Pane Casareccio di Genzano IGP deve essere sottoposto ad una seconda fase di lievitazione che dura circa 40 minuti. Le casse contenenti il prodotto non ancora pronto devono, in questa fase, essere sistemate in un ambiente caldo con una temperatura idonea alla lievitazione.
Cottura - il Pane Casareccio di Genzano IGP può venire cotto sia in forni a legna sia in forni ad alimentazione diversa. La temperatura del forno deve essere compresa tra i 280 ed i 320 °C al fine di permettere al prodotto di raggiungere al suo interno una temperatura di cottura compresa tra i 94 ed i 96 °C ottenendo così una cottura uniforme e completa e di consentire il formarsi di una crosta di circa 3 mm di spessore. Proprio la conformazione di questa parte più superficiale del pane, consente alla mòllica del prodotto di rimanere spugnosa e soffice, con fori o alveoli irregolari e non eccessivamente grandi. A seconda delle dimensioni delle pagnotte e dei filoni, la fase di cottura può durare dai 35 minuti fino ad 1 ora.
- l profumo e la fragranza del Pane Casareccio di Genzano IGP vanno attribuiti all'uso del lievito madre e alla qualità e varietà dei cereali impiegati.
- Il lievito naturale e la doppia fase di lievitazione (il ciclo di lavorazione dall'impasto allo sfornamento dura oltre quattro ore) permettono al prodotto di conservarsi per diversi giorni dopo la cottura.
- Il bollino identificativo del Pane Casareccio di Genzano IGP viene applicato sulla forma prima che questa venga infornata, quindi non è necessario utilizzare alcuna sostanza collante in quanto è la pasta fresca e appiccicosa a garantirne l'adesione. La carta e gli inchiostri usati sono rigorosamente atossici.
- Il colore scuro della crosta del Pane Casareccio di Genzano IGP non è un difetto ma una specifica caratteristica ed è dovuto sia al metodo di cottura che al cruschello di frumento cosparso sulla superficie dei filoni e delle pagnotte prima della cottura.
- Pane carasau (Sardegna)
Conosciuto anche come “carta musica”, proviene dalla Barbagia, il cui nome deriva dall’appellativo di “Barbaria” che i Romani diedero a queste terre per l’ostinazione e l’orgoglio della gente locale.
Il pane carasau nacque perchè ai pastori impegnati nella cura delle greggi serviva in cibo che potesse durare a lungo senza perdere le porprie caratteristiche.
Ancora all'inizio del '900 la carta musica oltre che con lievito, sale e acqua si faceva con due tipi di impasti, uno a base di fior di farina di grano duro (tavole più agiate), l’altro a base di farina d’orzo o cruschello (famiglie più modeste).
L’antico processo di preparazione del pane carasau, per la notevole energia fisica indispensabile nell’operazione, richiedeva la presenza di almeno tre donne, amiche o parenti che ricevevano in cambio olio e ricotta. La pasta veniva tirata in dischi separati da panni di lino o lana sovrapposti a castello. Per scaldare il forno si utilizzava il legno di quercia, e la cottura del pane iniziava all’alba. Quando il cerchio di pasta cominciava a gonfiarsi si rivoltava, e vi si appoggiava delicatamente una pala di legno per favorire l’omogeneità della forma. Una volta sfornata la pagnotta, con il coltello si divideva in due per ottenere dischi uguali. La parte morbida veniva consumata in giornata nelle case benestanti, l’altra più secca veniva rimessa in forno per farla biscottare.
Il pane carasau se condito con olio e sale prende il nome di “guttiau”, diventa invece “frattau” se le sue sfoglie vengono bagnate nell’acqua bollente, cosparse con pomodoro, pecorino grattugiato e sovrapposte le une alle altre.
Tutti hanno alcuni denominatori comuni: sono pani di farina (grano tenero) o semole (grano duro) locali, sono fatti col lievito madre, lavorati artigianalmente e cotti nel forno a legna (il che vuol dire non solo calore, ma anche umidità e aromi).
Con la sola eccezione della carta musica vengono confezionati in grandi forme. Sono pani che durano almeno una settimana.
E sono sempre buoni, non da buttare dopo alcune ore. Aiutano la digestione sono gustosi con un po’ di olio evo di qualità oppure anche da soli, con le noci o con un po’ di ricotta.
In alcuni casi come per il pane di Altamura, svolgono anche la funzione di contenitori di zuppe frittate insalate o uova.
Il verbo lievitare significa gonfiare o sollevare. È l’azione che produce l’aumento del volume del prodotto e ne modifica sostanzialmente anche l’aspetto finale. Si ottiene la levitazione tutte le volte che aggiungiamo un lievito agli ingredienti scelti.
I lieviti sono un gruppo di funghi che si producono per gemmazione (riproduzione cellulare) in presenza di aria e in condizioni di appropriata alimentazione.
I lieviti trasformano gli zuccheri innescando il processo di fermentazione influenzato da diversi fattori, quali la temperatura che condizione l’acidità dell’impasto (ph), gli zuccheri disponibili (nutrimento base) e la presenza di sostanze quali sale o grassi che se presenti in dosi eccessive, possono inibire il processo.
Il lievito è costituito dunque da microrganismi capaci di nutrirsi, riprodursi ed eliminare sostanze di rifiuto, in questo caso gas, ovvero anidrite carbonica.
Impastando acqua e farina, i lieviti incorporati hanno due finzioni: una è di produrre gas attraverso la fermentazione e l’altra è di scindere gli amidi dalla farina in zuccheri semplici.
L’anidrite carbonica (o gas) deriva pertanto dal normale processo di respirazione che mantiene in vita le cellule del lievito e la sua formazione ha come diretta conseguenza l’aumento del volume dell’impasto.
A seconda della struttura, della forma, del peso, del colore, dell’aroma, della consistenza e della conservabilità desiderata si sceglie il tipo di lievitazione.
Esistono tre principale tipi di lievitazione:
- Lievitazione fisica (introduzione di vapore o aria per aumentare il volume)
- Lievitazione chimica (prodotta attraverso l’utilizzo di lieviti chimici, generalmente a base di bicarbonato di sodio o ammonio)
- Lievitazione biologica (ottenuta attraverso la fermentazione e il calore dei lieviti naturali o biologici, quali il lievito madre e il lievito di birra)
Il lievito naturale detto anche lievito madre, o pasta acida, è il più antico conosciuto; è tornato molto di moda, ma non è il più usato per la complessità della formazione e conservazione del panetto madre.
Questo lievito è utilizzato quasi esclusivamente in ambito artigianale-industriale; è composto da acqua e farina di forza addizionati a liquidi fermentanti derivati dalla frutta, principalmente uva o miele, o yogurt; il tutto impastato e rinfrescato più volte fino al risultato finale.
La sua durata è lunghissima se viene curato e coccolato bene (lievitazione, temperatura, rinfreschi e acidità)
Contiene una massa di microrganismi (saccaromiceti) che continuamente si moltiplicano provocando sempre nuove fermentazioni. È pertanto necessario creare e mantenere continuamente, per il tempo necessario, tutte le condizioni ideali alla vita dei microrganismi e al loro metabolismo, ivi comprese la loro riproduzione e nutrizione.
Questo tipo di lievitazione complessa e lunga è la madre di tutti i lieviti.
L’uso del lievito madre, molto utilizzato nei grandi lievitati, come panettoni e colombe, è l’ideale per la panificazione, presenta degli innegabili vantaggi, quali una durata maggiore di conservazione del prodotto finito, una struttura più fine e regolare dell’impasto cotto, un sapore e un aroma più intensi e una maggiore digeribilità del prodotto.
Tuttavia questo lievito richiede continui rinfreschi, anche quotidiani, fino a quando non raggiunga la maturazione; inoltre il panetto originario, dal quale si staccano dei pezzi che originano un nuovo panetto, ha una durata limitata, perciò va costantemente utilizzato e rinnovato.
La conservazione del panetto per più giorni o per un periodo superiore a una settimana comporta una serie di operazioni non sempre agevoli da espletare in ambito casalingo e che la relegano alle mani esperte degli artigiani, ciascuno dei quali custodisce gelosamente la propria ricetta per la realizzazione del lievito madre.
Il lievito di birra, gli antichi egizi lo chiamavano “fondo di birra” o schiuma ed era costituito da sottoprodotti della birra da cui prese il nome.
Ai nostri tempi, invece, pur conservandone il nome, viene riprodotto dalle aziende che utilizzano uno scarto della lavorazione dello zucchero chiamato melasso.
Il più conosciuto in commercio, noto anche come lievito pressato o compresso è confezionato in piccoli panetti di 25 g per l’uso domestico.
I saccaromiceti raggiungono alte concentrazioni e il liquido in cui si moltiplicano viene centrifugato, ottenendo un specie di crema filtrata che poi viene compressa.
Il lievito di birra può essere trasformato anche in lievito seccato attivo, cioè essiccato a basse temperature, portandolo all’8% di umidità e prolungandone la conservabilità nel tempo. Sotto questa forma essiccata è particolarmente apprezzato in diversi Paesi.
Si tratta, dunque, di una coltura selezionata e pura di microrganismi unicellulari chiamati saccaromyces cerevisiae (presenti anche non lievito madre)
Ogni panetto contiene 100 miliardi di microrganismi vivi. Aggiunti all’impasto, si nutrono dell’amido della farina, sviluppando come prodotto di rifiuto ga, o anidride carbonica che determina la lievitazione. Il lievito, agente responsabile della lievitazione, respira e consuma ossigeno; tale consumo cambia al variare della temperatura e quella ottimale oscilla tra i +24° e + 27°.
La prima regola da osservare per ottenere una buona lievitazione è quella di rispettare le esigenze di tali microrganismi.
Prima di tutto il lievito deve essere conservato in buono stato: se fresco, va tenuto al freddo fino al momento dell’uso, in secondo luogo è necessario creare le condizioni di umidità, temperatura e composizione dell’impasto ideali per la sua corretta attività.
È un prodotto di pronto impiego usato per la panificazione professionale e casalinga e per lo sviluppo delle paste lievitate lavorate in ambiente domestico, dove, dicevano, è difficile seguire le delicate precedure della lavorazione del lievito madre.
Il lievito di birra si conserva in frigorifero alla temperatura di +4°. Prima dell’utilizzo va lasciato riposare a temperatura ambiente per evitare uno shock termico.
Vengono definiti impasti a pasta lievitata tutti i preparati a base di liquido, generalmente acqua, più il sale e le quattro materie prime di base cioè farina, materia grassa, succhero uova, lasciati fermentare e lievitare con l’aggiunta di un lievito.
Ovviamente, per arricchire le ricette, sono utilizzate anche altre materie (lecitina in polvere, germe di grano, acido ascorbico, malto in polvere, ecc.) o altri liquidi (panna, latte).
Per preparare bene una pasta lievitata è necessario prima leggere la ricetta, pi scegliere gli ingredienti adeguati, pesarli con precisione e conoscere il ruolo e il comportamento di ogni materia prima di base impegnata.
La qualità della farina dipende dalle proteine che contiene, in genere maggiore è la quantità di proteine, migliore sarà la qualità della farina definita forte, cioè in grado di sviluppare durante la fase di impastamento a contatto con i liquidi, una “maglia glutinica” consistente, capace di donare corpo alla pasta per ottenere lo sviluppo e l’espansione delle bolle di anidride carbonica in fase di cottura.
Farine ad alto contenuto proteico consentono, dunque, di ottenere impasti ad alta digeribilità e lunga lievitazione.
Sono farine di grano tenero prodotte per il 70% negli Stati Uniti e per il 30% in Europa. Tra queste farine conosciamo la Manitoba, Utility, Plata e Florence Aurore, solo per citarne alcune.
La forza della farina definisce:
- La quantità dell’acqua necessaria per l’impasto
- La durata e le caratteristiche dell’impasto
- La variazione dell’impasto durante la fermentazione
- La lievitazione e la cottura
- Lo sviluppo del prodotto durante la lievitazione
- Il volume del prodotto finito
- La sua forma
- Le caratteristiche dell’alveolatura.
Oltre alle farine forti, che abbiamo citate esistono farine rinforzate (per pasticceria lievitata con biga di 15 ore), farine speciali (per pasticceria di grosse dimensioni, panettoni, pandoro) e, al contrario, farine deboli (per cracker, bignè, masse montate) o debolissime (per wafer, biscotti secchi o biscotteria in genere),
la materia grassa, la quantità e la qualità delle materie grasse (burro o margarina)) hanno un ruolo determinante nel gusto, nella struttura e nella conservazione del prodotto cotto. Inoltre la quantità di materia grassa determina anche il tempo di lievitazione, perché ne rallenta l’attività isolando con il grasso le cellule del lievito.
La quantità di materia grassa aggiunta può variare da 150 fino a 900 g per kg di farina. La temperatura d’impiego de burro si aggira sui 18° e la sua consistenza deve essere semi solida, priva di grumi o di goccioline d’acqua. Il colore deve essere giallo chiaro con sentore di panna e sapore non rancido o alterato dai gusti aromatici negativi.
Lo zucchero molto fine è più veloce nel discioglimento a contatto con i liquidi (uova, latte, panna, tuorli, acqua). La quantità di zucchero varia in funzione dei nostri gusti e del risultato che desideriamo.
Partecipa alla colorazione della crosta per la razione di Maillard, ma soprattutto assicura il nutrimento delle cellule del lievito, permettendo una buona fermentazione e un buon sviluppo dell’impasto. Se ne può sostituire una parte con il miele o zucchero invertito (1-2% sul totale) per avere una pasta con una colorazione più pronunciata e una maggiore morbidezza del prodotto.
Bisogna però fare molta attenzione perché quando lo zucchero è in eccesso, non agisce più come catalizzatore della lievitazione, anzi la rallenta in quanto, essendo igroscopico, cioè assorbendo l’umidità, attira a se l’acqua utile agli enzimi del lievito non consentendo loro di svilupparsi.
Le uova sono adatte sia fresche che ovo prodotti (pastorizzati, congelati, disidratati). La quantità delle uova da incorporare dipende dalla ricetta scelta.
Le uova servono a idratare l’amido e le proteine presenti nella farina utili a formare la rete glutinica.
La temperatura d’impiego ideale è di 4°.
Ovviamente devono essere fresche, prive di odori sgradevoli e di muffe.
L’albume ha una notevole capacità montante - strutturante, mentre il tuorlo assicura una migliore emulsione e sofficità all’impasto.
Non dimentichiamo che l’uovo sbattuto, da solo o miscelato a latte o panna, costituisce un ottimo lucidante per conservare in congelatore le preparazioni già formate evitandone l’essiccazione, e per ottenere, in fase di cottura, una colorazione omogenea della pasta.
Il sale, l’aggiunta di sale all’impasto conferisce maggiore forza ed elasticità alla maglia glutinica sviluppata dalla farina e aumenta l’imbrunimento della crosta in fase di cottura. La funzione organolettica è quella di dare più sapore al prodotto e, secondo il gusto dei consumatori, è variata nel tempo la percentuale del suo impiego, che oggi si aggira sui 20 g per kg di farina.
Da ricordare che il sale non deve mai stare a contatto diretto con il lievito, altrimenti ne uccide le cellule.
Ecco per quale motivo negli impasti une dei due ingredienti sempre aggiunto in seguito, proprio per evitare il contatto con l’altro.
Nella formazione dell’impasto lievitato i liquidi, oltre all’acqua possono essere anche latte e panna.
La differenza nell’impasto è che rendono la massa leggermente più pesante e con una colorazione maggiore per la presenza del lattosio. L’eventuale aggiunta di liquore deve avvenire sempre alla fine dell’impasto, per evitare di compromettere la formazione della maglia glutinica e l’attività viva del lievito.
Negli impasti lievitati possono essere aggiunti degli elementi definiti migliorativi, in quanto ricoprono un ruolo importante e preciso, atto ad apportate delle migliorie al risultato finale del prodotto.
Sono sostanze ossidanti che agiscono sulla struttura molecolare del glutine. A loro volta si suddividono in emulsionanti e prodotti maltati. Gli emulsionanti hanno la capacità di legare le molecole di grassi a quella dell’acqua. Si trovano in natura nel lardo, negli oli vegetali e nei semi di soia. Questi agenti facilitano l’impastamento che rimane anche più sostenuto.
Annoveriamo tra gli emulsionanti la lecitina in polvere che protegge dall’essiccazione del lievito e dal disgregamento della maglia glutinica a contatto con il freddo. I prodotti maltati sono zuccheri prontamente fermentabili, i cui enzimi accelerano la lievitazione e conferiscono una colorazione più uniforme alla crosta in fase di cottura.
Si annovera in questa categoria il malto in polvere, ottimo per sviluppare le qualità fermentative di certe farine, per incentivare lo sviluppo della pasta in cottura e per aumentare la colorazione della crosta.
Alcuni parametri di controllo degli impasti sono legati al tempo, cioè all’energia impiegata e alla velocità della macchina o delle proprie braccia.
Se la ricetta è ricca, serve più tempo d’impasto, se meno ricca, minor tempo.
Teniamo sempre presente che gli impasti sono condizionati anche dal potere di assorbimento dei liquidi da parte della farina, dal tipo di farina, dal tipo di liquidi, dalle temperature delle materie prime (da aggiungere sempre a temperatura ambiente) e da metodo usato per incorporarle. Non dimentichiamo, ad esempio, che il lievito di birra prima dell’uso va sciolto in un liquido, generalmente acqua o latte, ad una temperatura che non deve superare i 35°, ma non deve essere neppure troppo freddo.
Sarebbe ideale mantenere l’ambiente dove si impasta sui 20 – 24° e la lievitazione si considera completata quando la pasta a raggiunto il doppio del suo volume iniziale.
Durante le fasi di lievitazione o riposo degli impasti, questi vanno protetti da correnti d’aria avvolgendoli in una pellicola e riponendoli in scatoloni o grossi contenitori di polistirolo con coperchio (in alternativa nel forno spento).
La temperatura di cottura degli impasti va bilanciata in base al loro tipo: più la pasta è consistente, meno sarà elevata la temperatura, perché è presente una minor quantità di acqua da far evaporare e più compattezza e resistenza della pasta.
Al contrario con paste meno consistenti, le temperature devono essere più elevate.
Qualche accorgimento per conservare, e quindi riutilizzare, il pane avanzato? Ricordate anzitutto che più è bianco meno si conserva (2 giorni), che quello integrale ha una vita un po' più lunga (3-4 giorni) e quello di segale è ancora più longevo (fino a 6 giorni).
E poi:
- riponete il pane in sacchetti di carta o di tela mai ermeticamente chiusi (deve poter circolare un po' d'aria);
- se avete solo sacchetti di plastica, per evitare che il pane assuma sgradevoli sentori di muffa aggiungete una zolletta di zucchero;
- in frigorifero, nel comparto meno freddo, il pane bianco manterrà le sue caratteristiche per 3-4 giorni (di più gli altri tipi).
Per ravvivarlo basteranno pochi minuti in forno moderatamente caldo nel congelatore il bianco dura fino a 2 mesi (gli altri più a lungo).
Per riporlo ricorrete agli appositi sacchetti (magari aggiungendo uno zuccherino) o a fogli di alluminio che avvolgano le singole forme, per consumarlo lo si riscaldi nel forno dopo averlo tenuto un paio d'ore a temperatura ambiente se nell'arco della giornata il pane fresco s'indurisce, avvolgetelo per qualche minuto in un panno umido e poi scaldatelo in forno non troppo caldo se in casa vi ritrovate solo pane raffermo: spruzzato d'acqua fredda, mettetelo in un sacchetto di carta e dopo dieci minuti ponetelo in forno per un quarto d'ora.
Secondo altre esperienze: mettete il pane per qualche minuto sulla griglia del forno, anche in questo caso a temperatura moderata, infilando nel forno stesso anche una tazza d'acqua (eviterà un'eccessiva perdita di umidità).